LEGGENDA DI UN ALBERO

di Domenico Zappone

Forse un tempo, nei lontani giorni della creazione, le Isole andavano vagabonde per il mare, prima che una forza divina le incatenasse alle azzurre grotte del Mediterraneo. Tuttavia, in certi mattini d'aprile, succede che ancora ai nostri dì le Isole rompano gli ormeggi e cominciano a ruotare su se stesse. Ecco. Dapprima son percorse da un lieve sussulto che si confonde col vibrare dell'aria. Subito dopo, però, (e non c'è da sbagliarsi), scattando all'improvviso, si dispongono in cerchio come per un girotondo, ma, trascorso un altro attimo, irrompono come furie pel mare, invadono il quieto orizzonte. Il sole le colpisce in pieno, ne delinea asperità e vallate, le fa rosee e lucenti, cerca di trattenerle trasformando il Mediterraneo in un grande specchio d'argento, ma invano: quelle, incalzate da una oscura follia, irrompono sciamando, in un battibaleno sono prossime al lido, naufragheranno fatalmente, se qualcosa non le ferma, in una di quelle silenziose cale della costa, la cui intatta sabbia attende da millenni un' orma o un grido, - peggio ancora solleveranno onde a guisa di montagne sulle casette di Nicotera intervallate da filari di canne fiorite, resteranno all'asciutto come enormi cetacei guizzando nell'agonia.

Queste cose, - ripeto, - succedono di primavera, quando ogni sorta di stranezza è possibile e l'antico sangue si sveglia. Il viaggiatore, a quella vista, resterà col fiato mozzo nell'attesa terribile che l'evento si compia, e, invece, superata appena le balze di quel paese, non senza gioia vedrà che gli aranceti di Rosarno scacceranno l'apocalisse delle Isole e del mare, che riapparirà al fine ammansito oltre Gioia, quando il treno comincerà ad arrampicarsi verso i trafori di Palmi, in bilico sugli strapiombi macchiati di ginestre.

In questo mondo che ricorda il diluvio, aspro e selvaggio come ai giorni della creazione, franarono un tempo incandescenti macigni dalle vette, sicchè, conservando ancora il mai spento calore, l'acqua del mare, al contatto, sfrigge e ribolle. Oggi, però, le balze non rosseggiano di fiamma, ma scolorano per le foreste di ulivi alti come torri e forti come giganti, nella cui chioma grigia di balda vecchiezza il vento vi si impiglia come in una rete.

Innamorate di questi alberi, muovevano fin qui le Isole di Vulcano, vagheggiandone un solo ramo che illeggiadrisse la loro aridità, ma questo non era possibile per la loro stessa natura.

Fu allora che un uccellino, impietosito per la più piccolina di esse, le lasciò cadere un gracile seme tanto per accontentarla. Questo seme, lottando coi venti e le onde, forzando la stessa natura impietosa della roccia, riuscì a spingere la prima radice nella viva pietra fino a spremerle succhi e vita. Oggi la pianta vive ancora e, come all'inizio, si nutre di mare e di roccia. I venti furiosi per la rabbia le strapparono le nere chiome, gliele fanno candide le onde che allagano la sommità dello scoglio al quale è aggrappata.

Per colpa di quest'albero che con le sue radici ha incatenata la piccola Isola alla terra, muovono nei prodigiosi mattini le Isole di Vulcano. Percorrono tutto il mare nella vana ricerca, si spingono fin presso alle coste, lanciano disperati richiami, rischiano di arenarsi e di perdersi. Sconvolte dal dolore, vanno errabonde e piangenti alla ricerca della sorellina stregata dall' albero che porta in cima, empiono il mare di singhiozzi e di gridi, tornano infine straziate sulla linea dell'orizzonte, amaramente piangendo sulla misera sorte dell'infelice.

Esse non sanno invece che la loro pupilla non è stata inghiottita dalle secche, ma vive in un anfratto misterioso e segreto da prigioniera; non sanno che essa le ha viste, dopo la scorribanda, allontanarsi e perdersi, quando le erano quasi prossime, e che ora, impazzita per il dolore che la sconvolge, agita senza pace la chioma selvaggia, popolata di nidi e di uccelli.

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